14 maggio 2011

Cunningham, ragazzo della Luna, sogna la nuova Nasa

Walter Cunningham 

Articolo di Piero Bianucci

L’avventura spaziale di Walter Cunningham è stata breve, 11 giorni in tutto. Ma la sua fu l’impresa di un pioniere. Andò in orbita con il primo razzo Saturno, quello progettato da von Braun per la conquista della Luna, più precisamente, il “Saturn 1b”. Un volo sperimentale carico di rischi, che condivise con Walter Shirra e Donn Eisele, entrambi scomparsi (nel 2007 e nel 1987).
La missione si chiamava “Apollo 7”. C’era stato un disgraziato “Apollo 1”, con tre astronauti morti bruciati durante una semplice esercitazione: Gus Grissom, Roger Chaffee e Ed White. Dopo la tragedia, lo sviluppo del razzo proseguì con test senza equipaggio fino all’”Apollo 7”, quando per la prima volta tre astronauti misero la loro pelle su quella macchina pesante 590 tonnellate, quasi tutte di propellente. In pratica, una enorme bomba con in cima una piccola cabina abitata.
Cunningham era tra i “vice” dei tre astronauti carbonizzati. Quella sera aveva aspettato a lungo che il test finisse. Alla fine, poiché i contrattempi si sommavano ai contrattempi, si decise a tornare a casa. Del resto quel test era “routine”, una simulazione sulla rampa di lancio, niente di più. Seppe dell’incidente mentre era ancora in auto. Notizia lacerante. Ma che gli aprì la strada dello spazio. Se Grissom, Chaffee e White non fossero morti in quel modo spaventoso e per certi versi inglorioso, chissà quale sarebbe stato il suo destino. Mors tua vita mea. La capsula dell’”Apollo 7” si chiamò “Fenice” perché era risorta dalle ceneri dei tre astronauti martiri.
Queste vicende Walter Cunningham ce le racconta nei primi capitoli del suo libro “I ragazzi della Luna”, ora tradotto in italiano per l’editore Mursia (Milano) da Umberto Cavallaro (606 pagine, 20 euro, prefazione di Giovanni Caprara). Segue l’epopea dei voli verso la Luna, fino al commiato dell’”Apollo 17” nel dicembre 1972. Una storia vissuta dall’interno, con gli aspetti umani, nobili e meno nobili, storie di ragazzi eccezionali, spesso eroici, ma nessuno è eroe sempre e dovunque. E poi lo Shuttle, che proprio in questi giorni sta raggiungendo il traguardo della pensione. La stazione spaziale russa “Mir”, e ora la Stazione Spaziale Internazionale.
A mezzo secolo dall’incursione in orbita di Gagarin e quasi a quarant’anni dall’ultima impronta umana lasciata sulla Luna, leggere queste pagine di Cunningham è istruttivo ed emozionante. Nato nel 1932 a Creston nello Iowa, Cunningham era un pilota di caccia dei Marines cresciuto alla Venice High School in California. Già esperto di volo acrobatico aveva assistito al lancio dello Sputnik nel 1957 e ai voli di Gagarin e di Sephard (missione suborbitale di 15 minuti, 5 maggio 1961) ancora ignaro del proprio destino. Quando nel 1963 ci fu un bando per astronauti, decise di concorrere, anche se gli mancava un anno alla laurea in fisica.
“Apollo 7”, il suo primo e unico volo nello spazio, partì l’11 ottobre 1968 e rientrò il 22 nell’oceano Atlantico: 263 ore intorno alla Terra, mentre già la missione successiva, “Apollo 8” realizzerà la circumnavigazione della Luna. Fu dunque un viaggio fondamentale per mettere alla prova il razzo ma senza lustrini. Eppure aveva il brivido di chi affida la propria vita a un razzo audacemente sperimentale. “Avevo visto molti decolli – scrive Cunningham – ma questo era diverso. Si trattava del più grande razzo mai lanciato, che sollevava il carico più grande mai messo in orbita, e questa volta ero seduto dentro, non stavo guardando”.
Ecco gli istanti fatali: “Il razzo comincia a sollevarsi dalla rampa di lancio così lentamente e così pesantemente che all’inizio non ti dà neppure l’impressione che si stia muovendo. Passano 10 secondi di lenta agonia, prima che Apollo 7 lasci la torre: 590 tonnellate devono essere bilanciate in una scia di fuoco”.
Ora che l’era Shuttle è al tramonto, il libro di Cunningham, sempre avvincente, acquisisce attualità e un grande interesse negli ultimi capitoli e nelle conclusioni. Cunningham dichiara tutta la sua disapprovazione per il “turismo spaziale”, specie se coinvolge strutture internazionali di ricerca come la Space Station. Se turismo deve essere, se la vedano gli imprenditori privati che fantasticano di alberghi sulla Luna e soggiorni in orbita. L’esplorazione dello spazio è una cosa seria da trattare seriamente, e deve uscire dalla crisi. Non è solo una questione di soldi. I finanziamenti della Nasa sono scesi ma non è questo il vero problema. I soldi arriverebbero se si ritrovassero le idee coraggiose e lo slancio che fecero del Programma Apollo un grande successo. Certo, non c’è più l’incentivo della “guerra fredda” e della competizione con l’Unione Sovietica. Ma la sfida del ritorno sulla Luna per scopi scientifici e magari per raccogliere elio-3 da usare nei futuri reattori nucleare a fusione controllata non è da sottovalutare.
In prospettiva c’è Marte. “La nuova missione della Nasa – dice Cunningham – “è studiare l’universo ed esplorare il sistema solare”. Per farlo bisogna garantire l’accesso allo spazio con un nuovo mezzo tipo shuttle ma a decollo orizzontale e in grado di salire a 60 chilometri bruciando l’ossigeno dell’atmosfera, senza doverselo portare in un serbatoio; lassù dovrebbe partire un secondo stadio a razzo classico. Ma con un carico pagante ben maggiore perché fino a 60 chilometri di quota il primo stadio ha sfruttato il comburente regalato dall’atmosfera. Così il balzo verso Marte diventerebbe possibile.
In dollari di oggi il Programma Apollo costò 125 miliardi. Anche se il biglietto per Marte dovesse costare tre o quattro volte di più, sarà sempre meno di un anno di guerra in Iraq e in Afghanistan. Ma c’è la voglia di farlo? Nelle ultime righe Cunningham sembra dubitarne.

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